progettistoriebiocontatti
Inclusione

Le aziende e il movimento LGBTQIA+: un connubio sempre consapevole?

22 giugno 2023
5 minuti

Giugno è universalmente riconosciuto come il mese del Pride. Sempre più brand scelgono di sostenere la manifestazione in un’ottica di Corporate Social Responsability, di spostare la propria cultura aziendale sulla cosiddetta 'diversity & inclusion' o, più semplicemente, di declinare il proprio logo in chiave 'Rainbow'. Ma siamo sicuri che le aziende conoscano a fondo i fatti e le lotte che hanno portato al Pride Month?

Nella notte del 27 giugno del 1969 la polizia fece irruzione nella Stonewall Inn, un bar gay del Greenwich Village, in una delle numerose retate compiute in quegli anni dalla polizia contro la comunità gay. Quella sera però le cose andarono diversamente: gli avventori non si lasciarono schedare come al solito e i baristi non rincasarono per poi aprire il giorno dopo. Quella sera i gay raccolsero il testimonial del black power e della lotta alla guerra in Vietnam. Il ‘68 aveva aperto la strada al diritto delle minoranze di rivendicare con forza la propria dignità e i propri diritti. 

La tradizione orale ci ha riportato molti aneddoti di quella sera e pare che il “la” alla rivolta sia stato dato da due transessuali, divenute negli anni a seguire icone del movimento LGBT: Sylvia Rivera e Marsha Johnson, entrambe decedute da anni. Per dare un’idea di quale sia stato il loro apporto alla cultura pop newyorchese e forse globale, si pensi che a Sylvia Rivera è stata intitolata una strada e che a Marsha Johnson è dedicato un documentario di Netflix.

La rivolta dello Stonewall non fu una scaramuccia da bar: 2.000 persone del Greenwich Village tra i quali numerosi gay, lesbiche e trans affrontarono 400 poliziotti per tutta la notte. La scintilla fu una bottiglia lanciata dalla Rivera contro un poliziotto. Gli arresti furono solo 13 e, anche se il numero dei feriti non è mai stato chiarito, parlare di un centinaio di persone rimaste contuse è certamente una stima prudenziale. La polizia aveva dovuto dispiegare persino la Tactical Patrol Force, la squadra antisommossa addestrata per contrastare chi dimostrava contro la guerra in Vietnam. Davanti allo Stonewall anche le squadre speciali ebbero la peggio davanti alla folla queer.

Dopo gli arresti e i trasporti in ospedale, la situazione si calmò ma il giorno successivo la folla si ripresentò davanti allo Stonewall come in tutte le rivolte sociali in cui si difende uno spazio fisico oltre che sociale. E così anche nei giorni successivi. Uno dei volantini di quelle giornate recitava “via la mafia e la polizia dai bar gay”. Christopher Street, la strada del Stonewall, era diventata in quei giorni uno spazio autogestito, avulso dalle strutture e dalle istituzioni formali imposte dal controllo sociale tramite tattiche socio-politiche da cui non era esclusa la violenza, come teorizzato dallo scrittore anarchico Hakim Bey in TAZ: The Temporary Autonomous Zone, Onthological Anarchy Poetic Terrorism (1991).

Il Pride è una manifestazione che nasce da una rivolta vera, fatta di soprusi delle istituzioni.

La rivolta dello Stonewall portò alla nascita del Gay Liberation Front nel mese di luglio e già alla fine dell’anno il GLF si era diffuso in numerose città e campus universitari. Dall’anno successivo si creò la consuetudine di ricordare la rivolta dello Stonewall l’ultimo weekend di giugno, non solo negli USA ma anche in numerosi paesi europei, anche se in Italia per la prima manifestazione a sostegno dei diritti gay si è dovuto aspettare il 1971. 

Il Pride è una manifestazione che nasce da una rivolta vera, fatta di soprusi delle istituzioni, sangue sull’asfalto, ossa rotte, “devastazione e saccheggio” (per usare la dicitura dell’art. 419 del nostro Codice Penale). Una rivolta guidata e partecipata da una minoranza, all’epoca, scomoda e disturbante. Una rivolta però diversa perché a guidarla non erano i Black Panthers dei cortei per i diritti degli afroamericani o gli studenti fricchettoni contrari alla guerra in Vietnam ma drag queen su tacchi alti e abiti succinti.

Il Pride ha mantenuto nel suo DNA la provocazione di molti partecipanti. Per molti si tratta di “folklore”, che porta spesso i suoi detrattori ad accostarlo a una carnevalata. In realtà dietro le drag vestite da Marylin c’è l’omaggio a Sylvia Rivera e Marsha Johnson. 

Se in alcuni elementi “core” il Pride è rimasto immutato, per altri aspetti è profondamente cambiato. Innanzitutto si è liberato del suffisso “gay” e in questo modo è diventato più inclusivo nei confronti di tutte le sfumature della sessualità: lesbiche, trans, intersex, queer, ecc. Ma è diventato anche più inclusivo nei confronti delle aziende che sempre più numerose scelgono di sostenere la manifestazione in un’ottica di CSR (Corporate Social Responsability) o che hanno sposato una cultura aziendale incentrata sulla cosiddetta “diversity & inclusion”. Come è evidente anche dalle migliaia di aziende che nel mese di giugno decidono di declinare il proprio logo in chiave “Rainbow”.

Finché il movimento LGBTQIA+ sarà parte del più ampio movimento per i diritti sociali e civili, il suo spirito iniziale sarò intatto.

È probabile che le aziende che oggi sposano la causa dell’incisività ignorino le vere origini del Pride e del movimento LGBTQIA+. Magari non tutte sarebbero contente di sponsorizzare una manifestazione che è iniziata 50 anni fa con una bottiglia scagliata da una trans contro un poliziotto. Per certi versi questa ignoranza da parte delle aziende può essere vissuta dal movimento LGBTQIA+ come un’azione situazionista: farsi sostenere da chi non ti darebbe mai un Euro è un paradosso che se vissuto con ironia è bellissimo. Dall’altro lato però, un’altra parte del movimento vede snaturato lo spirito del Pride da queste partecipazioni non consapevoli. 

Se la posizione del movimento LGBTQIA+ nei confronti delle aziende è comprensibilmente non omogeneo, diversa è la situazione nei confronti dei lavoratori. Nel 1984 in pieno thatcherismo un gruppo di attivisti LGBTQIA+ londinesi iniziò a sostenere la causa dei minatori del Nord in sciopero e a raccogliere fondi a favore delle famiglie dei disoccupati. I due gruppi dopo i primi tentennamenti scoprirono la solidarietà reciproca e nel 1985 il Pride di Londra venne aperto dalle delegazioni dei minatori come riconoscimento per il supporto ricevuto alle proprie lotte e l’anno successivo la difesa dei diritti gay entrò nello statuto nelle trade unions inglesi. 

Allo stesso modo, quasi 40 anni dopo nel 2019 a Milano nella parata del Pride hanno sfilato anche i rider, rivendicando i propri diritti di lavoratori, incuranti della presenza come sponsor della manifestazione di alcune piattaforme di food delivery.

Finché il movimento LGBTQIA+ sarà parte del più ampio movimento per i diritti sociali e civili, il suo spirito iniziale sarò intatto. D'altronde se nel 1969 ci si batteva per impedire la chiusura di bar probabilmente in mano ai malavitosi, perché oggi si dovrebbero rifiutare le sponsorizzazioni di aziende desiderose di salire sul carro della diversity & inclusion?


Opera di @stillonoir

Antonio Rainò
Head Of Marketing and Communication presso Wonderful Italy
Spargiamo la voce